Il risparmio degli italiani è tra i più alti al mondo in rapporto al reddito. Eppure, questo non implica che venga gestito bene.
Una parte importante della ricchezza nazionale rimane intrappolata in strumenti poco trasparenti, costosi e spesso inadatti agli obiettivi reali delle famiglie.
Perché? Le cause sono molteplici: scarsa educazione finanziaria, fiducia eccessiva negli istituti tradizionali (come abbiamo raccontato in questo articolo), scarsa propensione a informarsi in autonomia e una delega totale a soggetti che talvolta hanno interessi diversi dai nostri.
In questo scenario, la figura del promotore finanziario (oggi spesso inserito in reti collegate a banche o SGR) gioca un ruolo centrale: è il primo interlocutore del risparmiatore, ma non sempre il suo modello di lavoro coincide con l’interesse del cliente.

Prodotti non su misura: il rischio della “taglia unica”
La consulenza viene spesso presentata come “personalizzata”, ma nella pratica il percorso è standardizzato. Si parte da un questionario di profilazione che dovrebbe mappare obiettivi, età, orizzonte temporale e tolleranza al rischio. Troppo spesso, però, diventa un modulo burocratico, utile soprattutto a coprire legalmente l’intermediario.
Il risultato? Quasi tutti vengono incasellati in 3-4 profili (prudente, bilanciato, dinamico, aggressivo) e si ritrovano con lo stesso pacchetto di fondi o polizze.
Basta un esempio per capire. Mario, 60 anni, vicino alla pensione, vuole proteggere il capitale e ottenere un reddito stabile. Luca, 35 anni, ha un lavoro sicuro, un orizzonte lungo e desidera far crescere i risparmi.
Entrambi compilano il questionario e ricevono un fondo bilanciato “dinamico”. Per Mario è troppo rischioso; per Luca troppo prudente. Nessuno dei due ottiene ciò che serve davvero. I
l punto è che il promotore finanziario raramente è libero di costruire un portafoglio da zero: deve attingere a un listino predefinito, spesso interno alla banca o alla SGR collegata. L’assenza di accesso a tutto il mercato riduce drasticamente la possibilità di scegliere strumenti realmente adeguati.

Conflitti di interesse: chi paga chi?
Se i prodotti non su misura sono un problema di qualità, i conflitti di interesse ne rappresentano uno di integrità.
In teoria, chi ti consiglia dovrebbe lavorare al tuo fianco. In pratica, il promotore finanziario collegato a una rete o banca è remunerato dalla struttura per cui opera. E quella struttura ha un obiettivo chiaro: massimizzare i propri profitti.
La banca guadagna dalle commissioni sui prodotti collocati: più sono costosi, più incassa. Il professionista ha obiettivi commerciali e incentivi legati alla vendita. Anche senza malafede, il sistema lo spinge a proporre strumenti redditizi per la banca, non necessariamente i migliori per te.
L’esempio delle polizze unit linked è emblematico: costi elevati, doppio strato commissionale (polizza + fondi sottostanti), vincoli contrattuali.
Perché vengono promosse con entusiasmo? Perché generano commissioni su più livelli.
Lo stesso accade con molti fondi comuni: il cliente si ritrova in portafoglio soprattutto i prodotti della casa, anche quando esistono alternative più efficienti e meno costose.

Poca trasparenza: i costi che non vedi ma paghi
Molti risparmiatori credono che la consulenza in banca sia gratuita perché non ricevono fattura.
In realtà i costi sono dentro i prodotti: commissioni di ingresso, gestione, performance, spese amministrative, costi di intermediazione. Un totale che può superare il 2–3% annuo. Sembra poco? Nel lungo periodo è devastante. Su 100.000 euro investiti per 20 anni con rendimento lordo 5% annuo, chi non paga costi arriva a circa 265.000 euro; chi paga il 2,5% annuo si ferma attorno a 160.000. La differenza (oltre 100.000 euro) è l’effetto della capitalizzazione non solo dei rendimenti, ma anche dei costi.
Fondi comuni e KID: come orientarsi
I fondi comuni hanno vantaggi (diversificazione, accesso a mercati lontani, gestione professionale), ma i costi elevati e i risultati spesso inferiori al mercato nel lungo periodo pesano.
Per confrontare in modo consapevole esiste il KID (Key Information Document, qui la spiegazione di Banca d’Italia): tre pagine obbligatorie per legge che indicano obiettivi, rischio (da 1 a 7), scenari di rendimento e costi in percentuale e in valore assoluto. Il problema è che pochi lo leggono davvero. Eppure, lì trovi se un fondo costa il 2,5% o lo 0,5%; lì vedi se lo scenario sfavorevole può generare perdite rilevanti.
Miti da sfatare: il “promotore finanziario è sempre dalla tua parte”
La narrazione rassicurante (“parla con il tuo consulente di fiducia”) spesso nasconde la realtà del modello di business.
Dire sempre “aspetta” quando si è in perdita o in guadagno non è una strategia, è inerzia che mantiene attivi i costi.
Anche il mito “le azioni delle banche sono sicure” confonde il deposito (protetto entro certi limiti) con l’investimento azionario (rischioso e ciclico).
Le scelte devono essere basate su fatti, non su slogan.

Verso scelte più consapevoli
Il promotore finanziario può essere un interlocutore utile, ma il cliente deve sapere come funziona il sistema: prodotti standardizzati, incentivi alla vendita, opacità dei costi. Strumenti come il KID e l’attenzione ai conflitti di interesse sono fondamentali per non cadere in trappole costose. La via d’uscita passa da tre principi: chiarezza, personalizzazione, trasparenza.
Solo così il risparmio elevato degli italiani smette di rimanere intrappolato in strutture inefficienti e torna a lavorare per gli obiettivi reali delle famiglie.
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